Omessa comunicazione del conflitto d’interessi: sulla natura del danno di cui agli artt. 2629-bis e 2391 c.c.
Cassazione Penale, Sez. V, 7 luglio 2014 (ud. 11 febbraio 2014), n. 29605
Presidente Lombardi, Relatore Micheli, P.G. Mura (Concl. Conf.)
Massima
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 2629-bis c.c. e dell’art. 2391 c.c., comma 1, il richiamo alla nozione di danno o di nocumento deve intendersi dimostrativo di una dimensione non strettamente patrimoniale del pregiudizio rilevante ai fini della configurabilità del reato; diversamente, è invece inevitabile la doverosa natura patrimoniale del “danno ai creditori” rilevante ai fini della realizzazione dei reati previsti dagli artt. 2629 e 2633 c.c., vista la peculiarità dei soggetti (titolari di situazioni giuridiche di esclusiva natura economico-patrimoniale, relative alle ragioni di credito vantate) su cui parametrare la lesione.
Il commento
Con sentenza n. 29605, depositata il 7 luglio 2014, la V Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alle disposizioni di cui agli artt. 2629-bis (Omessa comunicazione del conflitto d’interessi) e 2391 c.c. (Interessi degli amministratori).
Ebbene, l’art. 2629-bis c.c. (Omessa comunicazione del conflitto d’interessi) prevede che “l’amministratore o il componente del consiglio di gestione di una società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altro Stato dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, ovvero di un soggetto sottoposto a vigilanza ai sensi del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 58 del 1998, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, che viola gli obblighi previsti dall’articolo 2391, primo comma, è punito con la reclusione da uno a tre anni, se dalla violazione siano derivati danni alla società o a terzi”.
Ed appunto l’art. 2391 c.c. (Interessi degli amministratori), al primo comma, dispone che “l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale, se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile”.
In particolare, nella pronuncia in commento, i giudici di legittimità si sono soffermati sulla natura del danno della fattispecie di reato di cui all’art. 2629-bis c.c. che discende dalle ipotesi di infedeltà patrimoniale previste dall’art. 2391 c.c. Com’è noto, infatti, l’interpretazione della prima tra le due norme richiamate, costituisce un polo di particolare complessità del diritto penale, soprattutto considerando il fatto che, in tale ambito, le fattispecie delittuose astratte vengono disciplinate da un corpus normativo diverso rispetto al codice penale e, in quanto tale, di non immediata intuizione.
Ora, venendo all’analisi del caso concreto, gli Ermellini si sono pronunciati sul ricorso proposto dalla difesa avverso un’ordinanza del Tribunale di Napoli con la quale era stato convalidato il sequestro preventivo ex artt. 321 c.p.p. e 2641 c.c. disposto dal G.I.P. del Tribunale di Nola.
Precisamente, come riportato nel testo della stessa sentenza n. 29605/14, “la vicenda si riferiva a delibere adottate dal consiglio di amministrazione della (omissis), operante in (omissis), attraverso le quali – secondo l’ipotesi accusatoria – erano stati concessi ad alcune società mutui ipotecari o chirografari, fidi, anticipi su fatture ed altre agevolazioni senza che ricorressero i presupposti di solvibilità delle società stesse, né di corretto andamento dei rapporti bancari a queste intestati: ciò in quanto i soggetti favoriti, con conseguenti danni per la banca in ragione del mancato rientro di quelle esposizioni, risultavano clienti della (omissis) s.a.s., società di servizi per la prestazione di consulenze e per la tenuta degli adempimenti tributari, di cui il (omissis) ed il (omissis) (entrambi, membri del consiglio di amministrazione della suddetta banca) erano rispettivamente socio accomandatario e collaboratore di fatto (oltre che, il (omissis), coniuge della socia accomandante (omissis), e socio egli stesso fino al 28/12/2005). Ne erano derivati addebiti ex articolo 646 c.p., articolo 61 c.p., nn. 7 e 11, nonché ai sensi dell’articolo 2629 bis c.c., per avere lo stesso (omissis), in particolare, omesso di dare formale notizia agli altri amministratori della banca ed ai componenti del collegio sindacale del conflitto di interessi correlato alla sua attività di consulente, prestata attraverso la (omissis) s.a.s., dei beneficiari delle erogazioni: il Tribunale riteneva peraltro che vi fosse gravità indiziaria con riguardo alle sole delibere che tra il 2006 e il 2008 avevano interessato, fra quelle indicate in rubrica, le società (omissis) s.a.s. e (omissis) s.r.l. (vicende rispettivamente contestate, come detto, ai capi C) ed I)”.
Come già anticipato, gli Ermellini nel caso in esame si sono soffermati, mediante un lauto excursus normativo, su di un’importante questione di diritto, sorta proprio dalle modifiche apportate al diritto societario dalle riforme del 2002 e del 2005, e, con l’intento di fare luce sulle intenzioni del legislatore, è stato operato un confronto tra le norme contenute nel testo dell’art. 2631 c.c. ante riforma (1) ed in quello di cui all’art. 2629-bis c.c., introdotto nel corpus del codice civile nel 2005.
In particolare la Suprema Corte ha sottolineato come, dalle numerose pronunce sul punto, sia emersa la diversa natura delle fattispecie criminose che si sono succedute, e, pertanto, come sia cambiato l’approccio interpretativo rispetto alle stesse. Difatti, nell’art. 2631 c.c. – formulazione ante riforma – la giurisprudenza riscontrava una fattispecie di reato di pericolo, impostazione dovuta al fatto che la disposizione de qua era finalizzata a tutelare la società – in termini lealistici – dalle commistione che poteva crearsi tra gli interessi dell’ente e quelli dei suoi organi di vertice (si veda, tra le altre, Cass., Sez. V Penale, sent. n. 6899 del 11.12.2000). La verificazione del danno ed il vantaggio dell’agente altro non erano, stando alla lettera della vecchia norma, circostanze aggravanti speciali.
Nell’art. 2629-bis c.c. – attualmente vigente – la Cassazione non ha dubbi, invece, nel ritenere che si tratti di un reato di danno, e ciò già prestando attenzione alla semplice formulazione della norma, che richiede la verificazione di “danni alla società o a terzi” quale elemento costitutivo della fattispecie (si veda, tra le altre, Cass., Sez. V Penale, sent. n. 5848 del 13.11.2012), caratterizzata tra l’altro, sotto il profilo psicologico, dalla necessaria presenza del dolo generico (elemento soggettivo che, pertanto, dovrà necessariamente ricadere anche sul danno).
E proprio sulla natura del danno ex art. 2629-bis c.c. quale elemento di fattispecie, la Cassazione ha, infine, sostenuto che, in termini prettamente giuridici, un’interpretazione della nozione del danno di cui alla norma richiamata in termini meramente patrimoniali – come prospettata dalla difesa nel caso di specie – non appare minimamente condivisibile.
A tal riguardo, la Suprema Corte ha, infatti, argomentato la propria tesi sostenendo che ove il legislatore ha voluto connotare il danno in termini esclusivamente patrimoniali, lo ha fatto espressamente, come, ad esempio, è avvenuto nel novellato art. 2634 c.c., rubricato “Infedeltà patrimoniale”, il cui 1° comma dispone che “gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni” (2)
A conclusione della ricostruzione appena richiamata, la Cassazione ha dunque pronunciato il seguente principio di diritto: “il richiamo alla nozione di danno o di nocumento deve intendersi dimostrativo di una dimensione non strettamente patrimoniale del pregiudizio rilevante ai fini della configurabilità del reato […]; ciò anche in ragione della previsione normativa di cui all’articolo 2640 c.c., atteso che, qualora il diritto penale societario dovesse realmente intendersi orientato alla tutela di esclusivi o comunque imprescindibili interessi di natura patrimoniale, il legislatore non avrebbe avuto ragione di prevedere un’attenuante ad hoc (peraltro richiamando in termini assai generali le ipotesi in cui venga cagionata una “offesa di particolare tenuità”), essendo a quel punto già applicabile la circostanza comune ex articolo 62 c.c., n. 4”. Alla luce di tale principio, infine, il ricorso è stato integralmente rigettato.
1) Art. 2631 c.c. (testo previgente alla riforma del diritto societario intervenuta con D.Lgs. n. 61 del 11 aprile 2002), recante “Conflitto d’interessi”: “1. L’amministratore, che, avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società, non si astiene dal partecipare alla deliberazione del consiglio relativa all’operazione stessa, è punito con la multa da lire duemila a ventimila. 2. Se dalla deliberazione è derivato un pregiudizio alla società, si applica, oltre la multa, la reclusione fino a tre anni”.
2) Articolo così sostituito dall’art. 1, D.LGS. del 11 aprile 2002, n. 61, recante “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366”, in Gazzetta Ufficiale n. 88, 15 aprile 2002.