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L’indirizzo IP è elemento essenziale della diffamazione a mezzo Facebook?

in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 9 – ISSN 2499-846X

Casssazione Penale, Sez. V, 5 febbraio 2018 (ud. 22 novembre 2017), n. 5352
Presidente Lapalocia, Relatore Calaselice

La pronuncia giurisdizionale in questione affronta un aspetto parecchio sentito dagli operatori del diritto nell’ambito dei procedimenti penali che scaturiscono dall’utilizzo della rete e, in particolare, del social network Facebook.

Com’è noto, sia le Procure che le aule dei Tribunali risultano piene di procedimenti che trattano le fattispecie di reato di diffamazione compiute a mezzo del predetto strumento. In proposito, va osservato che alla facilità con cui spesso gli utenti di “Facebook” ricadono nell’utilizzo di espressioni ritenute dagli stessi destinatari ingiuriose e diffamatorie non corrisponde un’altrettanta agevole identificazione dei soggetti responsabili di tali reati, soprattutto a causa della differenziazione tra la disciplina dell’ordinamento interno e quello statunitense.

Nella vicenda fattuale presa in esame dalla sentenza richiamata, una sindacalista veniva imputata e condannata in primo e secondo grado per il reato di diffamazione, ex art. 595 comma 3 c.p.,  in quanto accusata del fatto che, attraverso il proprio profilo Facebook, avrebbe indirizzato espressioni diffamatorie all’indirizzo del Sindaco del proprio Comune di appartenenza, nell’ambito di una discussione contenuta in una pagina dell’omonimo sito.

Il Tribunale e la Corte territoriale ritenevano che la paternità del messaggio diffamatorio fosse sufficientemente provata ed addebitabile all’imputata sulla base di alcuni indizi ritenuti gravi e concordanti:

– la denuncia della persona offesa con l’allegazione della stampa della pagina social su cui erano contenute le espressioni incriminate.

– la denominazione del profilo, riportante proprio il nome e cognome della sindacalista;

– la natura dell’argomento di discussione del forum, riguardante pretese di lavoratori del Comune, e perciò ritenuto di interesse dell’imputata;

– la circostanza che non risultasse che la stessa avesse mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente, nè avesse mai denunciato alcuno per furto di identità.

L’imputata, adendo la Suprema Corte, contestava il criterio di valutazione della prova utilizzato dai decidenti, in quanto, a suo dire, per giungere ad una corretta affermazione di responsabilità ,sarebbe mancato un elemento essenziale della motivazione. Quest’ultima, a parere della ricorrente, non avrebbe preso in considerazione né il dato dell’omessa verifica da parte dell’accusa dell’indirizzo IP associabile al profilo avente il nickname dell’imputata, né alcuna risultanza rinvenibile dal reperimento dei cd. file di log, questi ultimi contenenti tempi e orari della connessione.

La Suprema Corte accoglieva il ricorso dell’imputata sancendo, in tal modo, un importante principio di diritto.

La pronuncia, infatti, ha riconosciuto come anche in presenza di indizi apparentemente stringenti e convergenti in ordine all’identificazione di un soggetto quale autore del reato (nickname e mansione lavorativa corrispondenti a quelli dell’imputato e/o assenza di denuncia di usurpazione  di identità da parte di quest’ultimo), il presupposto imprescindibile per giungere ad una corretta motivazione sottesa ad una pronuncia di condanna sia quello di provare con certezza la riconducibilità del post diffamatorio agli imputati, attività possibile, però, soltanto attraverso il reperimento dell’indirizzo IP, dato, quest’ultimo, quantomeno in grado di attestare l’effettiva titolarità del profilo “facebook” attraverso l’intestazione della  linea telefonica allo stesso associata.

A questo punto, si potrebbe essere indotti a concludere che l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie sia elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione, ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook.

Tale impostazione, però, pare scontrarsi con  ulteriori pronunce della Suprema Corte sia immediatamente precedenti che immediatamente successive a quella in esame, dalle quali emerge che, a seconda dei casi, ai fini della corretta riconducibilità dei post ai propri autori, e, perciò, dell’ascrivibilità soggettiva delle condotte delittuose, più che essere ritenuta imprescindibile la mera identificazione dell’indirizzo IP, vada presa in considerazione la convergenza degli ulteriori indizi raccolti, quali, ad esempio, il movente che ha spinto il soggetto alla commissione del reato (Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30/11/2017) 05-03-2018, n. 9942), o, differentemente,  il concreto atteggiarsi del contegno del reo (eventuale proposizione di denuncia di usurpazione di identità e/o tentativo di cancellazione delle espressioni dallo stesso non riconosciute come proprie (Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 04/12/2017) 02-02-2018, n. 5175).

Tale conclusione porta a concludere che nel processo penale la riconducibilità delle espressioni diffamatorie contenute sul sito Facebook al loro effettivo autore e, pertanto, la rimproverabilità per il reato diffamatorio,  non prevede quale elemento essenziale l’identificazione dell’ indirizzo IP e dei file log.

Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Tanzarella, L’indirizzo IP è elemento essenziale della diffamazione a mezzo Facebook?, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 9