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Confisca dei beni utilizzati per commettere i reati societari. La Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641 cod. civ.

Cass. pen., Sez. V, Ord. 27 febbraio 2024 (ud. 14 dicembre 2023), n. 8612
Presidente Vessichelli, Relatori Catena – De Marzo

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Nell’ambito del noto procedimento relativo alla Banca Popolare di Vicenza, la Corte di cassazione, con la sentenza in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641 cod. civ., che prevede la confisca obbligatoria per i reati societari, nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato.

Nel caso di specie, i reati di aggiotaggio (art. 2637 cod. civ.) e di ostacolo alle funzioni di vigilanza (art. 2638 cod. civ.) erano stati commessi mediante finanziamenti funzionali aIla illecita alterazione del prezzo delle azioni ed alla creazione della artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza. L’entità complessiva del capitale finanziato era stato pari a € 963 milioni. Pertanto, il Tribunale di Vicenza aveva disposto nei confronti degli imputati la confisca per equivalente per il suddetto importo, ai sensi dell’art. 2641, comma 2, cod. civ., che assoggetta a confisca per equivalente i mezzi impiegati per commettere il reato.

La Corte di appello di Venezia aveva disposto la revoca di tale misura, ritenendo che si trattasse di una sanzione manifestamente sproporzionata, oltre che disancorata dal disvalore dell’illecito e dai singoli contributi concorsuali, a causa dell’automaticità del criterio di commisurazione, in aperto contrasto con i principi sanciti dagli articoli 3 e 27, comma 1, Cost.

Il Procuratore Generale presso la Corte di appello ha impugnato tale statuizione, lamentando la violazione di legge, in riferimento agli articoli 2641 cod. civ., 101, secondo comma, e 25, secondo comma, Cost., nonché con riguardo ai principi di legalità della pena e di separazione dei poteri. In particolare, il Procuratore ha contestato le argomentazioni utilizzate dalla Corte di appello, osservando che:
a) l’art. 2641, comma 2, cod. civ. prevede la confisca dei beni utilizzati per commettere i reati senza introdurre correttivi di tipo quantitativo correlati alle peculiarità del caso concreto;
b) la valutazione di sproporzione espressa dalla Corte d’appello, finisce per impedire l’applicazione della confisca, che il legislatore ha costruito come obbligatoria;
c) la valorizzazione, da parte della sentenza impugnata, dell’assenza di un profitto individuale, introduce un parametro normativo non previsto da parte dell’art. 2641 cod. civ. ed estraneo alla natura dell’istituto, che attinge non il profitto, ma i beni utilizzati per commettere i reati.

La Corte ha anzitutto premesso che «la norma di cui all’art. 2641, primo comma, cod. civ. prevede la confisca dei beni utilizzati per commettere i reati. Secondo la condivisa giurisprudenza espressa da questa Corte (…) costituiscono “beni utilizzati per commettere il reato” di cui all’art. 2638 cod. civ., confiscabili ai sensi dell’art. 2641, primo e secondo comma, cod. civ., anche mediante l’apprensione di beni per valore equivalente, i finanziamenti concessi da un istituto di credito a terzi per l’acquisto di azioni ed obbligazioni dello stesso istituto e finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell’ente creditizio diversa da quella effettiva, con ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. L’art. 2641 cod. civ., sia con il primo comma, sia con il secondo comma (…), che prevede la confisca per equivalente, non introduce alcun parametro di tipo quantitativo correlato alle peculiarità del caso concreto».

In seconda battuta, la Corte ha censurato la motivazione della Corte di appello, secondo la quale «sempre e in ogni caso, la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, ai sensi dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ. rappresenta un quid pluris sovrabbondante rispetto all’apparato sanzionatorio detentivo: ciò che sottende una valutazione di sproporzione della confisca per equivalente in considerata (…), con la conseguenza che, a ben vedere, la motivazione (…) si traduce (…) nella prospettazione di una interpretazione abrogatrice della previsione».

Il Collegio ha così formulato il giudizio di rilevanza della questione di legittimità costituzionale: «le critiche indirizzate dal ricorrente (…) a siffatta impostazione sono fondate, dal momento che l’apparato motivazionale che accompagna la decisione della Corte giunge alla conclusione della necessità di disapplicare la norma indicata (…) sempre e comunque (…). Ciò posto, il terzo motivo del ricorso del Procuratore generale appare meritevole di accoglimento: e tanto rende rilevante la questione di legittimità che si va a prospettare».

A questo punto la Corte ha dato conto di recenti modifiche a disposizioni – che prevedono tipologie simili di confisca – le quali hanno eliminato l’ipotesi di ablazione dei beni utilizzati per commettere l’illecito. Si tratta in particolare:

  • della Sentenza della Corte costituzionale n. 112 del 2019, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187 sexies TUF, nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, diretta o per equivaIente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto, riferita aIl’illecito amministrativo di aggiotaggio manipolativo;
  • dell’art. 26, comma 1, lett. e), L. 23 dicembre 2021, n. 238 che ha, fra l’altro, modificato l’art. 187, comma 1, TUF (che prevede la confisca per  il reato di aggiotaggio manipolativo), espungendo dalle ipotesi di confisca il caso dei beni strumentali a commettere il reato.

Ad avviso del Collegio «entrambi gli interventi (…) risultano chiaramente ispirati al principio secondo cui, nei casi di reati concernenti gli abusi di mercato, la confisca deve essere limitata al solo profitto, in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria. In altri termini, si intende restringere l’intervento ablatorio connotato da componenti punitivo-sanzionatorie, poiché esso, se fosse esteso al prodotto ed ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato (…). Tali principi sembrano dover essere applicati anche all’art. 2641 cod. civ., norma che concerne la confisca nel caso di reato di aggiotaggio, come pure nel caso del delitto di ostacolo alla vigilanza, data l’identità della ratio applicativa e della portata di tale disposizione rispetto a quelle sin qui citate . Infatti (…) è proprio un meccanismo di confisca per equivalente strutturalmente correlato ai beni utilizzati per commettere il reato ad essere costruito dal legislatore in termini che non garantiscono in astratto (…), la proporzionalità della risposta sanzionatoria, intesa come quella della necessaria adeguatezza al fatto, considerato nelle sue componenti oggettive e soggettive, che rappresenta la giustificazione retributiva della pena».

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha individuato i parametri costituzionali ritenuti violati.

Articoli 3 e 27, commi 1 e 3, Cost. poiché «l’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore, nell’ambito del diritto penale, quanto alla determinazione delle pene da comminare per ciascun reato, è soggetta ad una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso». Ad avviso della Corte, «la proporzionalità deve essere vagliata in rapporto alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione».

Articoli 3 e 42 Cost., 1 Protocollo 1 CEDU, 17 CDFUE, che costituiscono i fondamenti costituzionali, convenzionali ed eurounitari posti a tutela della proprietà, sulla quale la norma in questione indice in senso limitativo.

Articolo 49, paragrafo 3, CDFUE, che stabilisce il principio secondo cui «le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»  e che informa, fra l’altro, la disciplina eurounitaria delle misure ablatorie di carattere patrimoniale.

Tali principi, ad avviso del Collegio, «non consentono di giustificare la norma qui censurata, alla luce della componente afflittiva derivante dallo sproporzionato – perché non correlato ad alcun reale vantaggio conseguito – peggioramento della situazione dei destinatari della misura, rispetto a quella conseguente all’applicazione di strumenti di carattere meramente ripristinatorio e tenuto conto della forbice edittale prevista dalla fattispecie incriminatrice».

Da ultimo, la Corte ha chiarito che la scelta di formulare incidente di costituzionalità, piuttosto che un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, è stata dettata in particolare dalla necessità di provocare un intervento valevole erga omnes della Consulta.

Conclusivamente, la Corte ha sollevato «questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2641, primo e secondo comma, cod. civ., nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente anche i beni utilizzati per commettere il reato, in relazione agli articoli 3, 27, primo e terzo comma, 42 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento all’articolo 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU, nonché agli articoli 11 e 117 Cost., con riferimento agli articoli 17 e 49, par. 3, CDFUE».

Redazione Giurisprudenza Penale

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