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Sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti in sede di giudizio di legittimità – Cass. Pen. 35717/2014

Cassazione Penale, Sez. IV, 13 agosto 2014 (ud. 31 luglio 2014), n. 35717
Presidente Izzo, Relatore Citterio

Massima

La sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui agli artt. 3 e 4 della legge n. 67 del 28 aprile 2014, non può essere richiesta dall’imputato nel giudizio di cassazione, né invocandone l’applicazione in detto giudizio, né sollecitando l’annullamento con rinvio al giudice di merito. Infatti il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter procedurale, alternativo alla celebrazione del giudizio, introdotto da nuove disposizioni normative, per le quali, in mancanza di una specifica disciplina transitoria, vige il principio tempus regit actum. Né alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011, è configurabile alcuna lesione del principio di retroattività della lex mitior, che per sé imponga l’applicazione dell’istituto a prescindere dall’assenza di una disciplina transitoria.

Il commento

Nella sentenza in commento, i Supremi giudici si confrontano con i nodi applicativi causati dall’assenza di una disciplina transitoria dettata appositamente per il novello istituto della messa alla prova usufruibile da imputati maggiorenni. Giova ricordare come quest’ultima, sia stata introdotta, sul modello del probation già esistente nel nostro rito minorile, dalla legge n. 67 del 28 aprile 2014, con conseguenti modifiche sia al codice penale, mediante l’inserimento degli artt. 168 bis e 168 ter, nonché al codice di procedura con gli artt. 464 bis-novies.

La ratio dell’istituto è palese: si tratta di offrire un percorso di reinserimento alternativo a soggetti adulti processati per una serie di reati di minor allarme sociale, individuati in virtù della sanzione edittale (pena pecuniaria o detentiva esclusiva, congiunta o alternativa non superiore a quattro anni) ovvero scelti ratione materiae grazie al richiamo dell’elenco di delitti contenuti nel secondo comma dell’art. 550 del codice di rito. L’esito positivo della prova, riscontrato dal giudice, conduce ad un interessante risvolto ossia la dichiarazione di estinzione del reato; si profila così la natura “ancillare” del probation: da un lato causa di estinzione del reato e dall’altro strumento di definizione alternativa del processo (sul profilo sia sostanziale che processuale del “neonato” istituto si sofferma ampiamente la Relazione n. III/07/2014 del 5 Maggio 2014 della Corte di cassazione)

Sin da subito tuttavia, la legge n. 67 del 2014 pone dei non trascurabili problemi interpretativi dettati dalla mancanza di norme di diritto intertemporale: una questione, peraltro al vaglio ancora delle Sezioni Unite, è se le innovazioni normative possano trovare spazio per quei procedimenti relativi ai delitti ex art. 168 bis che, al 17 maggio del 2014 (data di entrata in vigore della legge), abbiano superato la fase processuale entro la quale è consentito all’imputato di chiedere di essere ammesso al beneficio.

Nell’assenza di una disciplina transitoria si inserisce appunto la pronuncia in commento, la quale, senza prendere posizione alcuna sulla natura della messa alla prova, pone innanzitutto un primo punto fermo relativo all’applicazione pratica di questo istituto: esso non può sicuramente essere richiesto in sede di giudizio di legittimità. La messa alla prova preceduta dalla sospensione del procedimento, osservano i Supremi giudici, si colloca in radicale antitesi rispetto alla celebrazione di qualsivoglia giudizio, richiedendo una serie di attività e apprezzamenti manifestamente rimessi al giudice di primo grado; ciò si ricaverebbe in particolare dalla previsione di termini ben precisi, tutti antecedenti la dichiarazione di apertura del dibattimento, dall’attribuzione al giudice di peculiari poteri di controllo e di verifica o ancora dal fatto che le ordinanze che statuiscono sulla richiesta originaria di ammissione alla prova o quelle che ne dispongono la revoca siano ricorribili immediatamente per cassazione.

La sospensione del procedimento e la conseguente prova configurano un rito alternativo prodromico all’eventuale estinzione del reato: da qui l’inevitabile connessione tra rito peculiare e beneficio estintivo, non essendo quest’ultimo fruibile in maniera autonoma e la consequenziale applicazione del principio tempus regit actum, posto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale. In sostanza la lex mitior, costituita nel caso di specie dall’introduzione di una nuova causa estintiva del reato tuttavia inscindibilmente legata ad un rito particolare, non può trovare un’applicazione retroattiva: quale spazio residua in sede di impugnazione e a fortiori in sede di legittimità per una procedura che è strutturalmente incompatibile con la celebrazione di un giudizio su una determinata imputazione? Né di per sé è ravvisabile una lesione del principio di retroattività della legge penale più favorevole, che ben può subire delle eccezioni in contesti processuali eterogenei, a differenza dell’irremovibile principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole.

La conclusione degli ermellini è chiara dunque: solo una specifica disciplina transitoria che contemplasse espressamente l’applicazione retroattiva della legge 67 del 2014, potrebbe aprire la via ad un procedimento incidentale, teso ad accertare i fatti suscettibili di condurre ad un esito positivo della prova, conditio sine qua non dell’estinzione del reato. Ragionare in termini contrari e ammettere una disciplina transitoria “in via interpretativa” significherebbe pervenire a risultati non solo creativi ma anche difformi rispetto al nostro sistema processuale: infatti la richiesta di messa alla prova esperita in sede di legittimità porrebbe di fronte alla scelta di svolgere l’intera procedura incidentale dinanzi alla Corte di cassazione oppure di servirsi dello strumento dell’annullamento con rinvio. Nel primo caso l’attività dei giudici della Suprema Corte verrebbe ad essere completamente snaturata, in quanto essi sarebbero chiamati a svolgere degli apprezzamenti di fatto che competono al giudice di primo grado.

Nel secondo caso le conseguenze sarebbero ancora più paradossali: occorrerebbe individuare il giudice del merito cui effettuare il rinvio (senza, si badi, alcuna indicazione legislativa) e nell’ipotesi di esito negativo della prova, data l’esigenza di procedere nel giudizio, si dovrebbero instaurare nuovamente uno o due gradi del giudizio di merito, già vagliati e immuni da vizi di legittimità. A ciò non si potrebbe ovviare semplicemente predisponendo un annullamento con rinvio rivolto ad aprire una fase incidentale al fine di consentire la messa alla prova, con salvezza della sentenza di merito nell’eventualità di esito negativo, in quanto un tale intervento si caratterizzerebbe per “l’assoluta creatività asistematica della costruzione”.

In ultima analisi, a cagione della insopprimibile connessione tra rito e diritto sostanziale nella messa alla prova e in assenza di una disciplina transitoria, si nega la possibilità di accedere al probation qualora il processo sia pervenuto alla fase del giudizio di legittimità. Resta ancora al vaglio delle Sezioni Unite invece, la questione relativa all’applicazione retroattiva della legge 67 del 2014 ai processi pendenti alla data di entrata in vigore del provvedimento, nei quali sia stata superata la fase processuale che permette di richiedere la prova.