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Sequestro di dispositivi informatici contenenti corrispondenza (e-mail e chat whatsapp): sulle ricadute della sentenza della Corte Costituzionale nel caso Renzi (170/2023) nel caso di cittadini non parlamentari

Tribunale di Milano, Sezione VII penale, Ordinanza, 5 dicembre 2023
Presidente dott.ssa Braggion – Giudici dott.ssa Malatesta e dott.ssa Clemente

Segnaliamo ai lettori l’ordinanza con cui il Tribunale di Milano si è pronunciato – ritenendo manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità che era stata proposta, in via subordinata, dalla difesa di un imputato – sulla questione relativa alle ricadute della sentenza della Corte Costituzionale nel caso Renzi (sentenza 170/2023), in punto di utilizzabilità, sull’ipotesi di sequestro di dispositivi informatici contenenti corrispondenza (chat, messaggi whatsapp ed e-mail) inviata e ricevuta da cittadini non parlamentari (nei confronti dei quali, dunque, non trovano applicazione le garanzie di cui all’art. 68 Cost.)

Il Tribunale prende le mosse osservando come, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, «i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare abbiano natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., non costituendo gli stessi flussi di comunicazioni in corso, bensì la mera documentazione ex post di detti flussi, con la conseguenza che deve considerarsi legittima la loro acquisizione». Nonostante tale indiscusso arresto giurisprudenziale, «il Collegio ritiene di dover accedere alla recentissima interpretazione offerta dal giudice delle leggi con la pronuncia n. 170/2023, secondo cui degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, e finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione».

Secondo la Corte costituzionale, da un lato, «il concetto di ‘corrispondenza’ è, dunque, ampio e comprensivo di ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza (pertanto, lo scambio di messaggi elettronici, a prescindere dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del proprio pensiero – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti dell’art. 15 Cost.»), dall’altro, l’acquisizione di tali messaggi non è comunque qualificabile come intercettazione, la quale consiste nell’«apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio».

Chiarita la nozione di corrispondenza, il Tribunale passa ad affrontare «la questione nodale se mantengano la natura di corrispondenza anche i messaggi di posta elettronica e WhatsApp già ricevuti e letti dal destinatario, conservati nella memoria dei dispositivi elettronici del destinatario stesso o del mittente (come quelli di cui oggi si discute)» e la collegata questione su quale sia la procedura corretta per legittimare la loro acquisizione (e successiva utilizzabilità), con specifico riferimento al caso in cui si sia al cospetto di privati cittadini non coperti dalle garanzie tipiche dei parlamentari: se sia necessaria, cioè, un’autorizzazione del giudice, sulla falsa riga di quanto accade per le intercettazioni o per i tabulati (pur con le evidenti differenze tra le due ipotesi), o se sia sufficiente la mera iniziativa del Pubblico Ministero.

Anche in questo caso, il Tribunale prende le mosse dalla conclusione offerta dalla Corte Costituzionale, secondo cui nel caso di mail o messaggistica contenuta in apparecchi informatici sequestrati, «si è al cospetto di sequestri di corrispondenza e gli organi inquirenti debbono ritenersi abilitati a disporre – in confronto al terzo non parlamentare – il sequestro del contenitore, così da disporre del suo contenuto e, solo nel caso in cui si riscontri tra i contenuti la presenza di messaggi intercorsi con un parlamentare, si deve sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare, a norma dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, al fine di poterlo coinvolgere nel sequestro».

Ciò, evidentemente, «non vale per il cittadino non parlamentare, cui si applica la garanzia dell’art. 15 ma non quella dell’art. 68 Cost.», posto che «l’obbligo di richiedere l’autorizzazione preventiva all’esecuzione dell’atto, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, non è riferibile alla fattispecie di sequestro di corrispondenza nei confronti degli imputati non coperti dalle guarentigie dell’art. 68 Cost.».

Sempre richiamando la sentenza della Corte costituzionale, i giudici proseguono osservando come «il modulo procedurale appena delineato – che prevede l’apprensione mediante sequestro dei contenuti dei supporti informatici e l’autorizzazione solo nel caso in cui vi sia contenuta corrispondenza di un parlamentare o a lui diretta – garantisce, secondo la Corte Costituzionale, che non vengano penalizzate in modo ingiustificato le stesse iniziative dell’autorità giudiziaria volte all’accertamento dei reati».

Afferma, infatti, la Corte che «quando pure, infatti, gli organi inquirenti possano prevedere che nel telefono cellulare o nel computer di una persona sottoposta ad indagini siano memorizzati messaggi di un parlamentare, ciò non impedisce, comunque sia, agli organi stessi di apprendere il dispositivo e di sequestrare tutti gli altri dati informatici contenuti nel dispositivo, che nulla hanno a che vedere con la corrispondenza del parlamentare: fermo restando invece l’onere della richiesta di autorizzazione al fine di estrapolare dal dispositivo e di acquisire agli atti del procedimento i messaggi che riguardano il parlamentare stesso. L’autorizzazione resta pur sempre preventiva rispetto al sequestro di corrispondenza, senza trasformarsi in una autorizzazione ex post ai fini dell’utilizzazione processuale delle risultanze di un atto investigativo già eseguito: autorizzazione che l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 prevede solo in rapporto alle intercettazioni e all’acquisizione di tabulati telefonici, e non pure al sequestro di corrispondenza».

Da tutto ciò si ricava – conclude l’ordinanza – «che la tutela apprestata dall’art. 15 Cost. alla corrispondenza, comprensiva di mail, sms e messaggi WhatsApp, richiede soltanto il sequestro da parte del Pubblico Ministero, secondo la procedura stabilita dagli art. 253 ss. c.p.p. che la stessa Corte Costituzionale ritiene legittimi e sufficienti, senza ritenere necessaria, a differenza di quanto avviene per le intercettazioni di conversazioni in corso, l’autorizzazione del giudice». Del resto – si precisa – «ciò è anche conforme a quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (28997/2012), secondo cui la sottoposizione a controllo e l’utilizzazione probatoria della corrispondenza epistolare non è soggetta alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, dovendosi invece seguire le forme del sequestro di corrispondenza di cui agli artt. 254 e 353 c.p.p.

Sulla base di tali argomenti nonché sulla base del fatto che la stessa Consulta ha ritenuto «legittima e conforme alla tutela dell’art. 15 della Costituzione la procedura prevista dal codice di rito relativa al sequestro di corrispondenza», il Tribunale di Milano ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità che era stata proposta, in via subordinata, dalla difesa.

Redazione Giurisprudenza Penale

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